ll più diffuso, potente, diversificato, vitale modo di fare esperienza del mondo. Che sia con un tubero, un fiore, un frutto, linfa, terra, foglie, licheni, alghe, animali, uova, muffe, alimenti trasformati a caldo o a freddo, pietanze elaborate secondo i dettami della cucina molecolare o non, lavorate secondo il credo crudista o del senza xyz (ove xyz è l’elemento demoniaco del momento per i nutrizionisti).
È la materia protagonista del panorama dell’edibile (categoria ben più ampia ma attraente ai neuroni di pochi).
È primariamente e comunemente interpretato come nutrimento, biologico o cognitivo, talvolta spirituale. Associato ai verbi del quotidiano quali mangiare, nutrirsi, assumere, preparare, comprare, produrre, distribuire eccetera ma anche a fini diversi: “food for thought”, “cibo per gli occhi”, o a complementi di specificazione quali “cibo degli dei”, “cibo dell’anima” e così via, in un immenso dispiegamento di sensi e funzioni pre- e meta-biologiche.
È un lemma tanto sinottico quanto ampio. Straordinario!
Sembra definire quello spazio sconfinato che sta tra le risorse reperibili in natura e le più innaturali produzioni di sintesi chimica elaborate dalla psicofisica (campo dominato da Howard Moskowitz, l’oracolo delle principali aziende di “Big Food”).
Questo B-side è facilmente individuabile con ciò che vostra nonna non riconoscerebbe come “cibo” (parametro suggerito da Michael Pollan nel suo saggio “In difesa del cibo”). Racconta simultaneamente la relazione sinergica tipica del convivio ma anche dell’isolamento dell’individuo postmoderno.
(Evelyn Leveghi)