Da 46 anni Vivo a New York City e osservo la città nel suo oscillare tra lusso e degrado. La Città del Profitto è in costante lotta con la Città della Convivialità. Oggi, nel bel mezzo dell’ennesimo boom edilizio, New York ricorda più la Zobeide di Calvino, fatta di avida competitività, che la sua Zora, composta dalle esperienze dei suoi abitanti. Il problema principale di questa ondata di nuovi edifici è il modo in cui ignorano la vita di strada. Vengono piantati direttamente nel terreno, senza lasciare spazio alle vetrine e ai servizi che rendono gratificante e piacevole il passeggiare in città.
E tuttavia, proprio quando è diventato palese che la pandemia di Covid non ci avrebbe abbandonati nell’immediato futuro, un altro genere di architettura ha cominciato a emergere. Ristoranti ospitati in capanni di compensato hanno invaso strade e marciapiedi. Ho visto con i miei occhi un tempio thailandese, un recinto di rami di betulla a comporre una finta foresta, e una capanna con un graticcio in stile alpino. Decorate sia dentro che fuori, queste strutture si sono ormai dotate di luci alla moda, tendaggi, vasi di fiori e coperte per i coraggiosi commensali che lo scorso inverno hanno sfidato le gelide temperature.
Queste allegre manifestazioni di urbanistica tattica, abbellite da fili di lucine colorate, regalano alla città un’atmosfera carnevalesca. Ed ecco che l’acting out diventa eating out. C’è una sorta di spavalderia in queste tende improvvisate fatte di plastica e legno che, con il loro esempio concreto, lanciano una sfida alla politica del denaro che decide chi può mangiare dove, chi può mangiare bene, e chi può mangiare e basta. Queste tende, prima di tutto, formano parte della Città della Convivialità.
(Susan Yelavich)