B come banana, no? Non provate a dirmi che avevate pensate ad altro!
D’altra parte, ragioniamoci un momento: esiste forse un frutto più popolare?
Il suo nome scientifico evoca già qualcosa di straordinario: musa x paradisiaca. Linneo in persona la classificò come tale, pensando al frutto proibito del giardino dell’Eden. I suoi nomi testimoniano il suo successo: benché originaria del Sud-est asiatico, Musa deriva dalla parola con cui gli arabi chiamavano il frutto (mauz), e banana deriva probabilmente dalla parola con cui i popoli abitanti l’odierno Senegal vi si riferivano, in lingua wolof, e che mercanti spagnoli e portoghesi diffusero poi nel mondo.
Scommetto poi che pensando alla banana tutti noi visualizziamo la stessa cosa. E questo perché, tecnicamente, i frutti che ci immaginiamo e mangiamo sono la stessa cosa. Sono infatti cloni di un’unica pianta della stessa varietà di banana, la Cavendish, che si impose come standard a metà del secolo scorso perché resistente a un patogeno. Il problema è che, oggi, quel patogeno è mutato, e questa varietà non ne è immune. Rinunciando alla varietà biologica, dunque, tutte le banane sono ora a rischio di estinzione.
La diversità biologica, o biodiversità, è il banco di mutuo soccorso di ogni specie. Conservarla e rappresentarla non è semplice, perché mettendo una specie sotto una campana di vetro la si toglie dalla fitta e mutevole rete di relazioni e condizioni ambientali che la plasmano e da cui nascono nuove varietà e nuove specie.
La biodiversità è dunque attributi e relazioni allo stesso tempo.
E a noi, che (ne) siamo una parte, tocca fare un passo avanti e uno indietro, lasciando spazio alla diversità, anche quando facciamo fatica a vederla, o non la comprendiamo.
Perché ci tornerà buona, più prima che poi.
(Simone Sala)