Per principio lo spazio pubblico è uno spazio sempre accessibile da chiunque, quindi temporaneamente. L’osmosi tra lo spazio privato e quello pubblico rende fluido il confine. Una sorta di marea, cadenzata o meno, con ritmi più o meno lunghi, talvolta tentacolare altre volte magmatica che fa penetrare uno spazio nell’altro, nelle due direzioni.
Facciamo un esempio, sperando non si perda di vista la vastità del tema: chi reclama un diritto e si insedia per un periodo diciamo in una piazza, occupa quello spazio. Se la situazione si protrae, viene a presentarsi uno schema di questo tipo: le forze dell’ordine – pubbliche – contrastano i manifestanti; alcuni cittadini – società civile – li sostengono in modo solidale. Che vuol anche dire rispondere ai bisogni di prima necessità, tra cui aprire le porte del proprio negozio o appartamento per consentire l’accesso alla “stanza da bagno”, che diventa temporaneamente pubblica.
Torniamo fuori: gli occupanti possono essere sgomberati; il vicino dehors, per il quale è stato stipulato un regolare contratto di uso del suolo pubblico ed è stata pagata la relativa tassa, viene goduto individualmente e serenamente, soprattutto se rende, e sovente con strutture sempre più permanenti.
Questa storia per dire che gran parte del nostro spazio pubblico è stato espropriato alla sua funzione, in modo legale. E che dello spazio pubblico è rimasta, capiente di potenzialità, la dimensione immateriale delle relazioni, che avvengono negli scampoli di ciò che si salva dalla privatizzazione fisica e sotto lo sguardo incrociato delle telecamere che si appropriano della nostra immagine. A questa scala, il design delle relazioni è un design critico liminale o di riscrittura delle norme. Tenendo in mente che in città, oltre ai cani al guinzaglio e ai piccioni, possono, per dire, pascolare autonomamente le pecore. Qualcosa che tende ai beni comuni?
(Rebecca De Marchi)